Chiusura stagione SDC 2016 con Stefano Bianchi

SOCIETA’ DEI CONCERTI TRIESTE

CONVERSAZIONE CON STEFANO BIANCHI

LE SONATE PER PIANOFORTE DI BEETHOVEN. 

Martedì 17 maggio alle ore 18.00 – Teatro Verdi

Ingresso aperto a tutti e gratuito 

Stefano Bianchi foto fornita da Daniela Sartogo
Stefano Bianchi foto fornita da Daniela Sartogo

Sono 32 le sonate di Beethoven, dalle prime geniali creazioni post-haydniane fino al luogo senza tempo delle estreme riflessioni beethoveniane. Le scopriremo con Stefano Bianchi durante l’ultimo appuntamento del ciclo di conferenze/incontri  2016 della SdC di Trieste.

Le trentadue sonate per pianoforte di Beethoven costituiscono uno di quei monumenti della civiltà occidentale ai quali ogni volta ci accostiamo – o anche soltanto pensiamo – con rinnovata riconoscente ammirazione. Per chi è sostenuto da una fede, la prima tentazione è quella di gridare al miracolo. Ma la tentazione è forte anche per chi risulti sprovvisto di tale dono.

Questo miracolo appare tuttavia riconducibile a delle categorie (storiografico-musciali, tecniche ed estetiche) che ci permettono in qualche modo di delinearlo, così da meglio comprenderlo ed ancor più apprezzarlo ed ammirarlo.

Poterlo fare, lungo il percorso di un’esecuzione integrale dal vivo (qual è quella che prende avvio questa sera) è un’esperienza di vita della quale non possiamo non essere grati a chi ci permetta di compierla.

Specchio fedele dell’evoluzione tecnica, estetica e creativa nella produzione di Beethoven, il corpus sonatistico beethoveniano delinea, con lapidaria evidenza, le tre fasi nelle quali la storiografia musicale ha tradizionalmente suddiviso tale produzione. «Imitazione», «estrinsecazione», «riflessione», suggeriva il compositore francese Vincent d’Indy nella seconda metà dell’Ottocento. «L’adolescente», «l’uomo», «il dio» sintetizzava in maniera più ‘ispirata’ il grande Franz Liszt, che della produzione beethoveniana è stato uno dei più appassionati estimatori e divulgatori in età romantica.

Il viaggio che compiamo assieme al pianista Filippo Gamba si sviluppa, come è giusto che sia, in ordine rigorosamente cronologico. E dunque partiamo dall’inizio. Ovvero da quella terna di Sonate composte tra la primavera del 1794 e il 1795, pubblicata come op. 2 a Vienna dall’editore Artaria e dedicata a Franz Joseph Haydn, «dottore in musica».

Giunto a Vienna all’inizio degli anni Novanta del Settecento, il Maestro di Bonn sembra per un decennio dedicare quasi tutte le sue attenzioni al pianoforte. Lo strumento, in quegli anni, da una parte è protagonista di una rapida crescita, che spalanca nuove potenzialità espressive, dall’altra sta facendo il suo ingresso in tutte le case dei dilettanti di musica. Nel caso di Beethoven, gli inizi delle fortune viennesi del poco più che ventenne compositore coincidono con una brillante carriera di virtuoso. Da questo momento in poi, lo strumento è destinato a costituire, fino ai lavori dell’esterma maturità (le ultime Sonate!), il banco di prova per la sperimentazione di problemi tecnici e compositivi, il terreno privilegiato delle più audaci innovazioni timbriche ed armoniche.

Non va dimenticato che lo strumento del quale dispone Beethoven in quegli anni è radicalmente diverso da quello che siamo abituati a sentire, ma anche da quello di cui lo stesso Beethoven disporrà per le sonate pianistiche negli anni della sua maturità. Il fortepiano tardosettecentesco (il termine pianoforte si sarebbe imposto soltanto a Ottocento inoltrato) prende progressivamente il posto del clavicembalo: ne abbiamo una testimonianza diretta proprio nell’op. 2 beethoveniana, composta per «clavicembalo o piano-forte». A voler sintetizzare nella maniera più semplice, possiamo ricordare che lo strumento per il quale vengono composte le prime tre sonate destinate a confluire nel catalogo ufficiale di Beethoven ha una sonorità molto più contenuta rispetto ai pianoforti delle generazioni successive. Potenza e continuità di suono passano dunque inevitabilmente attraverso la quantità e la velocità nella successione delle note suonate. Il che si traduce nella necessità di una scrittura estremamente brillante, che è una delle caratterisitche chiaramente presenti in questa terna di sonate, che ebbe il suo battesimo nel corso di una serata musicale a casa del principe Karl von Lichnowsky, alla presenza dello stesso Haydn, dedicatario – come già ricordato – del lavoro.

Altre caratteristiche sono quelle di una esuberante felicità creativa, di una prepotente impronta di originalità e, al tempo stesso, di una lucida coscienza stilistica. Il tutto si traduce nell’ingigantimento della struttura della forma sonata, vale a dire di quel principio di organizzazione formale del primo tempo di una composizione (normalmente in quattro movimenti, come nel caso di tutte tre le sonate dell’op. 2) fondato sulla dialettica di idee musicali e aree tonali. Un principio destinato ad imporsi quali carattere fondante di quel classicismo musicale (ovvero classicismo viennese) che ha i suoi tre campioni, come è noto, in Haydn, Mozart e Beethoven.

Quale fu l’accoglienza riservata da parte della critica contemporanea al debutto ufficiale di Beethoven nel genere della Sonata pianistica?

Lo leggiamo sulle colonne degli Annales musicales de Vienne et Prague  del 1796:

«Beethoven, un genio musicale che ha scelto da due anni Vienna come sua residenza, è generalmente ammirato per la velocità singolare e per le difficoltà straordinarie che esegue con grande destrezza. Da un po’ di tempo sembra essere entrato nel Sancta Sanctorum dell’arte, che è caratterizzato dalla precisione, la sensibilità e il gusto, grazie ai quali ha innalzato considerevolmente la sua fama… Già parecchie sono le sonate da lui composte, tra le quali si distinguono sopratutto le ultime».

Beethoven aveva infatti già composto delle Sonate pianistiche, ma non ritenendole degne di entrare nel catalogo delle sue opere iniziò la numerazione a partire dai Trii op.1. Alla critica citata fa eco quella della Wiener Zeitung del 9 marzo 1796:

«Come l’opera precedente dell’autore, i Trii per pianoforte op. 1 che si trovano già nelle mani del pubblico, è stata accolta con tanto successo, ci si ripromette la stessa cosa con la presente opera, tanto più che al di là del valore della composizione, possiede in sé qualche cosa che dimostra non soltanto la forza posseduta da Beethoven come pianista, ma anche la delicatezza con la quale sa trattare questo strumento».

Le Sonate op. 2 si collocano dunque in un contesto nel quale Beethoven si muove con meravigliosa disinvoltura all’interno delle consuetudini compositive dell’epoca, fissando nondimeno in maniera spiccatamente personale il punto di partenza di quella miracolosa traiettoria che, nel corso dei tre decenni successivi, lo farà approdare alla dimensione ‘inattuale’, eterna e metafisica, della “106”, della “109”, della “110” e della “111”.

Il viaggio è cominciato!

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