Erano tutti miei figli

Siamo tutti colpiti dallo stesso fulmine.

Arthur Miller

.

Di grande impatto l’effetto scenico sonoro che apre la scena con un’assordante rumore di tempesta di vento che spezza un ramo, immediatamente seguito dall’illuminazione di aerei militari in volo.

Un simbolismo evidente sulle vite giovani spezzate, morte a causa dell’avidità. L’albero era quello piantato a ricordo del figlio morto in volo, le vite spezzate erano quelle di ventuno giovani morti a causa della spedizione di materiale non idoneo a sostenere il carico del compito causando la rottura del motore con conseguente precipitazione del volo: giovani vite che come rami di un albero rischiano di spezzarsi improvvisamente.

Il padre colpevole sembra non rendersene conto, e vive la sua quotidianità in maniera del tutto superficiale. Dialoga in maniera affabile e ignora perfino la realtà dell’albero spezzato, colpevolizzando la moglie, interpretata mirabilmente da Anna Teresa Rossini, di pazzia.

Cercare di dimenticare non è semplice per la famiglia, ma soprattutto per la madre che continua ad aspettare il figlio, perchè finchè non lo considera morto,  può considerare non colpevole il marito, esordendo con la frase: Io non permetto che un figlio sia ucciso da suo padre.

Una complicità enorme che pone l’importanza della coppia al di sopra di qualsiasi altra cosa, compresa la vita dei  figli.

La scena è bianca, così come i vestiti, a simboleggiare la purezza, ma man mano che si insinua il dubbio, il marrone scuro inizia a prender posto negli abiti. Di nero vestirà il secondo figlio nel momento in cui si renderà conto della colpevolezza del padre, allontandosi da esso e prendendo posizione d’accusa, inducendolo al suicidio. Di marrone vestirà il fratello della futura sposa, un colore che vuole essere d’accusa, ma che si cheta non riuscendo ad avere abbastanza forza. Di marrone vestirà anche la madre, ma solo in parte, perchè lei, colpevole come il marito, non può staccarsi completamente da un rapporto di condivisione così forte.

Una scena che porta una divisione in vetrate dove a tratti i protagonisti si recano a parlare, dando l’impressione di ovattare le parole, rendendole distanti, ma forse proprio per questo, attirano maggiormente l’attenzione dandone forza.

Un continuo confronto tra le due generazioni, in una consueta mancanza di dialogo. Da una parte l’accusa di aver sbagliato, dall’altra quella di non poter capire.

Un testo che affascina e incuriosisce, un testo che presenta molte domande alle quali non sempre si può trovare risposta.

Tra le meditazioni migliori, quella della madre che, afflitta dalla perdita del figlio per mano del marito,  porta il pensiero a tutte quelle madri che nel cuore della notte, nella solitudine del loro letto, sperano che il proprio figlio ritorni a casa. Altrettanto forte l’impatto del padre che prima di uccidersi si asciuga le lacrime con le parole scritte nella lettera di saluto del figlio.

Eccezionale l’interpretazione  nella scena finale, in un dialogo che rivede il padre e figlio attori, Mariano e Ruben Rigillo, interpretare sulla scena un ruolo così difficile che ha reso Miller vincitore di New York Drama Critics Circle e due Tony Awards, permettendogli di raggiungere la fama.

©Laura Poretti Rizman

foto fornita da Il Rossetti
foto fornita da Il Rossetti

“Mariano Rigillo è Joe Keller in Erano tutti miei figli di Arthur Miller, dramma attualissimo che il grande autore americano scrisse nel 1947, subito dopo la guerra, denunciano gli interessi malati del capitalismo e il prezzo del traffico d’armi. Lo spettacolo va in scena da mercoledì 5 marzo al politeama Rossetti, per la stagione Prosa dello Stabile regionale”.

Mariano Rigillo ritorna sul palcoscenico del Politeama Rossetti, protagonista – nell’ambito della stagione di Prosa dello Stabile regionale – di Erano tutti miei figli, capolavoro di Arthur Miller scritto nel 1947 ma attualissimo per la sua portata di denuncia verso le ragioni estreme del capitalismo e la angosciante crisi dell’etica.

In Erano tutti miei figli il teatro civile e la civiltà del teatro parlano all’uomo senza retorica: il testo possiede la prodigiosa struttura dei capolavori in cui allegoria e concretezza convivono. Il dramma privato infatti, si fa qui paradigma dei traumi e delle contraddizioni che, ieri come oggi, travagliano la società postindustriale.
«La corrispondenza biunivoca tra microcosmo e macrocosmo innerva anche la nostra rappresentazione» spiega il regista Giuseppe Dipasquale. «Una casa altoborghese della provincia americana è specchio universale del marcio che, sotto ogni latitudine, antepone il denaro all’etica. L’impianto scenico trasporta lo spettatore in un contesto tanto spazioso quanto asfittico. L’estiva ambientazione in esterni, prevista dalla sceneggiatura originale, diventa piuttosto una serra-rifugio, trasparente isolamento di anime tra i suoi fragili vetri, su cui si addensano i tossici vapori di verità malcelate, ansie manifeste, colpe troppo a lungo sottaciute».

Joe Keller è un milionario senza scrupoli, che vuole far credere, persino a se stesso, di avere agito sempre per il bene della sua famiglia. Spietata è invece la logica su cui si fonda la ricchezza che ha accumulato, frutto di ciniche equazioni tra guadagno e disonestà, tradimento e menzogna, frode e illegalità.
Keller ha fatto tutto da solo, mentre i familiari, senza chiedersi mai nulla, hanno goduto degli agi, condividendo il risultato e il peso delle sue colpe. Affascina il passaggio impercettibile in cui la sinfonia di affetti si tinge di tragico e il dovizioso accumulo di capitale si rivela fatale. È in quelle scene che l’esistenzialismo di marca ibseniana prende corpo anche nella drammaturgia di Miller.

Ma a un certo punto, diviene impossibile fingere, impossibile tacere. Impossibile per il figlio aviatore disperso in guerra (che la madre continua ad attendere) e per quello invece rimasto in vita. Impossibile per la giovane che è stata fidanzata al primo, ed ora lo è dell’altro fratello. Impossibile per la moglie-madre che si rifugia nell’illusione. Ma le coscienze che urlano, dentro e fuori ognuno di loro, sono voci nel deserto: fanno male ma non paura. Non minano il consenso della massa, condizionata alla ricerca acritica di un benessere solo economico, inconsapevole di conseguenze fors’anche funeste.

Una per tutte, emblematicamente, Miller inquadra la lobby delle armi. Quella stessa che, lo vediamo, continua a mietere vittime, non solo in quanto postula belligeranza, ma per la diffusa spregiudicatezza troppo spesso impiegata nel celare difetti di produzione, più insidiosi del fuoco nemico.
Più in generale, in un’ottica industriale deteriore, è questo un delitto ciclico che si perpetua con diabolica impunità in tutti i settori merceologici. Difficile da individuare, quantificare, punire. A temerlo meno è proprio chi lo compie, preoccupato solo di farla franca e restare sul mercato: statisticamente ed egoisticamente sarà sempre l’altro a subire il danno.

E chi invece paga sulla propria pelle il prezzo del dolo commesso? Miller descrive la ricaduta personale, il boomerang che si abbatte sul colpevole. E lo fa all’indomani dell’atto più truce, la guerra. Denunciando la connivenza delittuosa che troppo spesso regola il profitto individuale rivelando il pactum sceleris, imposto dall’arricchimento a tutti i costi. Costringendo a vederlo come responsabilità di cui la comunità, tutta la comunità, compresa quella odierna, è investita.

Mariano Rigillo sarà Joe Keller in questa messinscena tesa e forte: al suo fianco (nel ruolo di Kate Keller) Anna Teresa Rossini, mentre sarà protagonista di durissimi confronti con lui Ruben Rigillo (anche in scena suo figlio, Chris Keller). Completano il cast Silvia Siravo (Ann Deever), Filippo Brazzaventre (Dr. Jim Bayliss), Barbara Gallo (Sue Bayliss), Enzo Gambino (Frank Lubey), Annalisa Canfora (Lydia Lubey) e Giorgio Musumeci (George Deever).

Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Stabile di Catania con la Doppiaeffe Production S.r.l. Compagnia di Prosa.
La regia è firmata da Giuseppe Dipasquale che ha collaborato per le scene con Antonio Fiorentino, per le luci con Silvia Polidori e per le luci con Franco Buzzanca.
La traduzione è di Masolino D’Amico.

Lo spettacolo va in scena dal 5 al 9 marzo al Politeama Rossetti per la stagione Prosa dello Stabile regionale. Da mercoledì a sabato lo spettacolo inizia alle 20.30. Giovedì anche alle ore 16, mentre domenica la replica è esclusivamente pomeridiana.
Biglietti ancora disponibili presso i punti vendita e i circuiti consueti dello Stabile regionale e si possono acquistare anche attraverso il sito www.ilrossetti.it.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.