L’altra sera mi è riemerso nella mente un incubo di qualche tempo addietro, ma non rimosso, non ancora scomparso né metabolizzato: è un fatto troppo grave, sconvolgente, accaduto anche dentro di noi, nell’animo di tutti i triestini, o comunque cittadini di Trieste, occorso proprio nella nostra città multiculturale e mitteleuropea, cerniera di frontiere e di etnicità, già grande città di ampio respiro, emporio e ora divenuto quasi un non luogo, di natura puramente letteraria. Città decadente, costruita ormai solo su ricordi di vecchi abitanti, anche se di grande civiltà. Questo è avvenuto nell’aprile del corrente anno 2012 e la vicenda relativa, dolorosa e triste mi è tornata alla mente leggendo su “Il Piccolo” dell’ 8 novembre c.a. che la Questura di Trieste ha voluto narrare e rappresentare i retroscena, le indagini e l’attività in genere della Polizia a Trieste.
La tematica: “Appuntamento con il delitto”. Quasi un appetitoso libro giallo da sfogliare, negli spazi del “Mittelschool” di via San Nicolò, unitamente ai cultori della discutibile materia, amanti ghiotti di George Simenon e letture similari. E mi è rimbalzato, ancora, agli occhi quasi increduli perché la prossima domenica – 25 novembre – è “la giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne”, le nostre compagne di vita. Nulla si sa più di questa triste e dolorosa vicenda, occorsa a una giovane donna, Alina Bonar Diauchuk, appunto, straniera, di soli 32 anni, proveniente dall’Ucraina e che cercava solo un asilo, un rifugio. A lei, donna esile e fragile, sono stati negati inspiegabilmente, perché fatta oggetto di violenza del tutto illegale, rinchiusa in una cella anche se in possesso della dichiarazione di libertà firmata dal magistrato competente.
Ancora, dopo 7 mesi , ancora nulla si sa di certo di tale deplorevole vicenda, non si conosce tutta la verità, del perché abbia preferito darsi la morte, rifiutare la vita anche se per lei non certo facile e gradevole. Nulla, anche se la stampa ha assicurato che si cercherà di far luce sull’accaduto, su quella mattina d’aprile del 2012, nel Commissariato per emigrati stranieri di Opicina, presso Trieste, denominato da più giornali “dell’orrore” (anche “Il Manifesto” dd. 17. 04.2012).
E, direi, che la storia sa ancora dell’incredibile, pare irreale, assurda. E si è scoperto, inoltre, che altri 49 casi, come chiamarli… di questo tipo di sequestro illegale di persona, di libertà negata a chi il giudice l’aveva giustamente concessa, ben altri 49 immigrati sono stati trattenuti senza motivazioni giuridica o morale, rinchiusi in questi anni, ripeto illegalmente, in celle non registrate come tali, chiuse dal di dentro, in attesa di… chissà…? E una di loro, una donna dicevo, Alina come accennato, ha opposto a quelle ingiustizie, a quel sopruso, un fermo e drammatico no, un urlo di vera e sincera ribellione. Grido di disperata volontà di essere libera e senza catene, donna tra donne libere con dignità, oggetto di rispetto e senza violenze o soprusi di sorta. Ha detto un grande ” NO” a quella vita che si mostrava col volto dell’ingiustizia e dell’oppressione. Alina si è infine impiccata con modalità tragica e inumana. Ha voluto riprendersi così, ma a quale prezzo, la sua dignità calpestata e negatale da menti e mani ingiuste e crudeli. Ma nulla si sa ora dell’ intera fattispecie, dicevo, che ha visto al centro lei, esile donna dagli occhi di bosco e dai capelli del colore dell’ebano, dietro alle sbarre dell’arbitrio e della sopraffazione. E nulla si conosce, senza risposta si trovano i disperati interrogativi circa gli altri 49 stranieri a cui è stata negata, senza alcuna giustificazione di legge, a loro liberi per ordine del magistrato, la preziosa libertà.
Vogliamo saperlo dalla Giustizia ufficiale, delle istituzioni, proprio il giorno 25 novembre, giorno internazionale contro la violenza alle donne. Perché nulla si sa ancora di quelle sopraffazioni perpetrate, offese alla civiltà ed al diritto?!
Claudio Cossu