L’Egitto dopo Mubarak

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L’Egitto Dopo Mubarak
Comunicato della Campaign for Peace and Democracy
14 Febbraio, 2011

La Campaign for Peace and Democracy appoggia i milioni di persone che nel mondo celebrano la grande vittoria del popolo egiziano, il cui inflessibile coraggio e la cui risolutezza hanno forzato con successo il dittatore Hosni Mubarak a dimettersi. Le rivoluzioni democratiche in Tunisia ed Egitto – come anche le proteste in Giordania, Yemen, Algeria, Bahrain, Iran, ed altri paesi vicini – danno ispirazione e confermano la verità delle convinzioni del CPD: che i movimenti popolari dal basso in favore della giustizia e della democrazia hanno il potere di mettere alla prova anche i sovrani che appaiono più invulnerabili. Appoggiamo con entusiasmo questi movimenti, siano essi in paesi i cui governi erano alleati degli Stati Uniti, o in paesi che come l’Iran sono in divergenza con l’imperium statunitense.

Per decenni l’assunto era che la dittatura di Mubarak fosse una delle più profondamente radicate del mondo. Il popolo egiziano, soffrendo per via delle vaste confische territoriali, dell’impoverimento e della disoccupazione, era visto come paralizzato dalla paura e dalla passività. Ma quella percezione è cambiata virtualmente nottetempo dopo la Rivoluzione Tunisina che ha energizzato l’Egitto ed il resto del mondo arabo. A partire dal 25 Gennaio, giorno dopo giorno, per più di due settimane, gli egiziani sono tornati nelle piazze e nelle strade in numeri sempre più grandi. Raramente negli anni recenti si è vista un’insurrezione popolare caratterizzata da una determinazione paragonabile a quella egiziana. I dimostranti non si sono lasciati intimidire, si sono rifiutati di indietreggiare; invece erano loro a far indietreggiare la violenza della polizia ed i bulli pagati da Mubarak. È una vittoria storica, ma c’è ancora molto da fare per assicurare la libertà e la democrazia per l’Egitto. Quanto ottenuto, comunque, è sufficiente per giustificare ampiamente l’orgoglioso slogan popolare: “Alza la testa, sei un Egiziano”.

Infatti, mentre la Tunisia potrebbe aver fornito l’ispirazione, la rivoluzione in Egitto non è sorta dal nulla. In Egitto, come in molti altri paesi del nord Africa, milioni di giovani erano sempre più affetti dal malcontento, non solo per le scarse opportunità di impiego, ma anche perché non potevano più sopportare il duro autoritarismo che li soffocava culturalmente, politicamente e socialmente. Inoltre, sin dal 2006, il terreno della protesta è stato reso fertile delle ondate di scioperi, alcuni enormi, in protesta ai bassi salari e alle condizioni di lavoro orrende (clicca qui per vedere la lettera aperta del CPD in appoggio ai lavoratori egiziani dell’Aprile 2010). L’azione dei lavoratori ha spianato la via del rovesciamento di Mubarak in più di un modo. Un numero significativo dei giovani che hanno coordinato le proteste in piazza Tahrir erano anche coinvolti in appoggio agli scioperanti. E ci sono valide ragioni per credere che una nuova ondata di scioperi nel settore tessile, governativo ed altri, in supporto degli appelli politici dei dimostranti al Cairo, Alessandria, Port Said, Sinai ed altrove, è stata un fattore decisivo nella caduta di Mubarak. Per ora, il movimento operaio egiziano rimane scarsamente organizzato, senza un chiaro profilo politico. Ma, come perfino il Wall Street Journal riconosce, costituisce “il gigante addormentato” egiziano.

Non c’è dubbio che la rivoluzione in Egitto si presenta come uno shock indesiderato a Washington e Tel Aviv, a prescindere da quello che il Presidente Obama dica. Gli Stati Uniti ed Israele hanno cercato di mantenere Mubarak al potere il più a lungo possibile. Nonostante Obama ora stia svergognatamente acclamando la partenza del dittatore e riempia di congratulazioni il popolo egiziano, il ruolo perfido che la sua amministrazione ha avuto in questa crisi non dovrà mai essere dimenticato. Per giorni, il Presidente, il Vice Presidente ed il Segretario di Stato hanno perfino rifiutato di etichettare Mubarak come un dittatore e scoraggiavano una sua uscita troppo affrettata. Tutto ciò, ancora una volta, dimostra l’ipocrisia della retorica pro-democratica di Washington. Da quando gli Stati Uniti sono profondamente coinvolti nel Medio Oriente, dopo la seconda guerra mondiale, hanno operato sotto la premessa che gli arabi – e gli iraniani – devono essere tenuti sotto controllo da dittatori e monarchi autocrati.

Washington è ormai costretta a sperare nella sua seconda opzione: un esplicito regime militare. Mentre potrebbe ancora non essere stato messo da parte, Omar Suleiman era la scelta prediletta dall’amministrazione per la successione di Mubarak. Il capo dell’apparato di sicurezza e quindi il comandante torturatore, Suleiman, è l’uomo della CIA e del Pentagono per il Cairo. In base a testimonianze di prigionieri che furono consegnati dagli Stati Uniti alle camere di tortura egiziane, Suleiman aveva perfino partecipato personalmente agli interrogatori.

Per quanto riguarda Israele, Netanyahu non fa assolutamente segreto del fatto che il suo governo teme ed oppone un’eventuale democrazia in Egitto. Nella sua guerra contro i palestinesi, Tel Aviv aveva un alleato affidabile in Mubarak. Se la sovranità popolare verrà davvero stabilita in Egitto, gli sciovinisti israeliani avranno buone ragioni di preoccuparsi. È improbabile che un governo al Cairo che risponde ai desideri del popolo egiziano sia disposto a continuare ad aiutare Israele a soffocare Gaza o a continuare la legittimazione del falso “processo di pace”. Il regime Mubarak, va ricordato, non era odiato solo per la sua corruzione e crudeltà verso il popolo egiziano ma anche per la sua cinica associazione con Israele e gli Stati Uniti. La rivoluzione in Egitto rende indiscutibilmente ovvio, ancora una volta, che la vera sicurezza di Israele dipende dal riconoscimento dei diritti dei palestinesi e dall’accomunarsi nelle cause delle forze democratiche in tutto il Medio Oriente.

I leader israeliani ed i loro simpatizzanti neo-conservativi statunitensi avvertono che la democrazia in Egitto aiuterà la Fraternità Musulmana a trasformare il paese in “un altro Iran”. Ovviamente, elezioni corrette e libertà per tutti i partiti politici daranno alla Fraternità l’opportunità di competere per il potere, e mentre il partito oggi è più “moderato” che in passato, non c’è prova che abbia rinunciato all’idea di stabilire uno stato Islamico sotto la legge della Sharia, che sarebbe un disastro per lavoratori, donne, omosessuali, non-Musulmani, e Mussulmani che non ammettono uno stato invadente nelle proprie vite private. Ma fino ad ora la forza della Fraternità è stata una conseguenza, in gran parte, della decennale repressione della sinistra secolare, sindacati, e movimenti delle donne, che avrebbero potuto offrire alternative. Per quasi 60 anni, il secolarismo egiziano è stato macchiato dalla sua associazione con uno stato repressivo. Certo, la Fraternità Musulmana è stata complice nella perpetuazione del regime Mubarak fino alla rivoluzione, che la ha presa completamente di sorpresa e alla quale ha dato supporto solo più tardi. Mubarak è stato deposto dal potere, come lo è stato Ben Ali in Tunisia, da un movimento che non ha niente a che vedere con le politiche dell’autoritarismo religioso. Una volta che la democrazia è istituita, la politica secolare e, noi speriamo, una sinistra secolare rinasceranno contendendosi il supporto del popolo egiziano. Infatti, se l’islamismo deve essere contrastato politicamente, un sistema democratico è assolutamente indispensabile. E questo vale anche per tutti gli altri “secolarismi” dittatoriali in Medio Oriente, dove le forze islamiche costituiscono attualmente la principale opposizione.

Il popolo egiziano potrebbe ben mettere fine ad una dittatura militare (sia pur di apparenza civile) che è stata al potere sin dal 1952. Ma per il momento sembra che la “neutralità” dell’esercito sia una dilagante illusione alimentata soprattutto dalla Fraternità Musulmana e da altre fazioni politiche. L’esercito egiziano non è certo un amico della democrazia ed è la colonna centrale – di fatto il creatore – dello stato di polizia, un vasto apparato che pare impieghi due milioni di egiziani, informatori inclusi. Tiene sotto controllo lucrativi imperi economici agricoli ed industriali. Ma l’esercito non è monolitico; i suoi soldati e sottufficiali non hanno un interesse nel sistema di corruzione e repressione, e possono essere attirati dalla parte del movimento democratico. Ciò è essenziale nella prevenzione di un dirottamento della rivoluzione da parte degli ufficiali superiori. La minaccia al futuro democratico egiziano è costituita dal comando dell’esercito – senz’altro in stretta consultazione con gli Stati Uniti – e non dalla Fraternità Musulmana.

Il 13 febbraio il New York Times riferisce che “l’esercito egiziano ha consolidato il proprio controllo la scorsa domenica su ciò che ha chiamato una transizione democratica dopo tre decenni di regno autoritario di Hosni Mubarak”. Noi speriamo che questo sia prematuro. Nei giorni e settimane a venire, gli egiziani dovranno battersi per ottenere un controllo popolare del paese anziché uno militare o dei servizi segreti. Ciò significa, prima di tutto, abrogare la legge trentennale dello “stato di emergenza” cosa che, tuttora, l’esercito militare rifiuta di fare. I prigionieri politici del paese devono essere liberati; ogni pratica di tortura deve essere messa fuorilegge. Mubarak non può essere lasciato fuggire con i suoi miliardi; lui e gli altri ufficiali al vertice devono pagare per i loro crimini. L’esercito ha sospeso la costituzione, ma gli egiziani devono accertarsi che sia rimpiazzata da una nuova costituzione democratica che riduca drasticamente il potere presidenziale e che garantisca diritti umani, inclusi i diritti degli operai, delle donne, e degli omosessuali. Condizioni democratiche sono necessarie immediatamente ed elezioni genuinamente libere si devono tenere il più presto possibile, non dopo sei mesi di governo militare. Infine, se ci deve essere una speranza nel porre fine alla orribile povertà e sfruttamento del popolo egiziano, un nuovo governo dovrà ripudiare non solo la corruzione ed il favoritismo del regime Mubarak, ma anche il neoliberalismo promosso dall’IMF e dagli Stati Uniti, ai quali va ascritta gran parte della responsabilità nel causare questa grave ineguaglianza e miseria popolare.

La Campaign for Peace and Democracy si sta battendo per una nuova, democratica politica estera statunitense, una politica che abiliti gli Stati Uniti ad essere in onesta solidarietà con le aspirazioni dei popoli nel mondo – piuttosto che essere, come lo è oggi, uno dei più grandi ostacoli a quelle aspirazioni. Nei mesi a venire faremo ogni sforzo necessario per accertarci che il nostro governo non abbia successo nel manovrare dietro le quinte per deragliare la Rivoluzione Egiziana mettendo i propri burattini al potere. L’11 febbraio David Ranger scrive sul New York Times che “la Casa Bianca ed il Dipartimento di Stato stavano già discutendo lo stanziamento di nuovi fondi a sostegno di un’ascesa dei partiti politici secolari”. Lo squallido record dei precedenti nel trentennale supporto statunitense a dittature militari in Egitto, virtualmente fino alla fine, funge da irrefutabile promemoria che se gli egiziani vogliono sperare di costruirsi una società giusta e democratica dovranno rifiutare ogni intervento statunitense nei loro affari.

La gioventù egiziana ha condotto la lotta con l’obiettivo di trasformare il proprio paese, il Medio Oriente, e di fatto il mondo intero. I lavoratori egiziani hanno dimostrato il tremendo potere sociale che il movimento operaio offre alla lotta per la democrazia. Essi sono un’inspirazione per noi tutti.

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Traduzione di Andrea Tamburini

One thought on “L’Egitto dopo Mubarak

  1. Thank you so much for translating our statement into Italian! If you would like to be on the Campaign for Peace and Democracy email list please write us at cpd@igc.org
    Thank you!
    Joanne Landy, Co-Director, CPD

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