I Quattro Imperativi delle Donne Inquiete

I Quattro Imperativi delle Donne Inquiete

Percorsi spirituali di arte contemporanea al femminile
Domus Ars, Napoli, Luglio 2013

di Beth Vermeer

Antonia Trevisan foto fornita da Beth Vermeer
Antonia Trevisan foto fornita da Beth Vermeer

Video dell’Installazione

Quando Julia Kristeva afferma che per agire, nel XXI secolo, economia e scienze non bastano, evoca una nuova apertura verso arti e religioni per combattere un mondo in cui regna l’uniformismo delle riduzioni. La psicoanalista e scrittrice parla da laica, con particolare attenzione sensibile a quel bisogno di credere e a quell’elaborazione di smarrimento e di sofferenza che rappresentano uno degli apporti più originali del cristianesimo alla nostra società. Anche chi non crede in Dio, dice, crede comunque nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della civiltà.

Con questa premessa si è inaugurato un nuovo capitolo del progetto “ Donne Inquiete. Geografia e Identità 01” che ha preso inizio nella città di Trieste a marzo 2013. Nella prima esperienza si sono incontrate donne di generazione, origine e formazione diverse, donne in movimento, donne che arrivano, donne che partono e che nell’intervallo da uno spostamento all’altro ci lasciano un ricordo codificato in arte. In questa seconda stagione del progetto otto artiste hanno accettato una sfida alta, quella di confrontarsi con un tema difficile che non riguarda più l’identità geografica ma quella spirituale, l’universo della fede, in una sede espositiva che una volta era sacra, e di favorire un dialogo tra credenti e non credenti. Il percorso cognitivo di questo desiderio di sapere che è alla base di ogni bisogno pre-religioso di credere, viene documentato attraverso la nascita di nuovi paradigmi nel nome della contaminazione tra arte, filosofia, psicologia e poesia. Anche in questa edizione le parole “ confronto, dialogo e comunicazione”  restano le direttrici dell’impegno culturale e dell’orientamento progettuale.

Le donne, come ci fa ricordare Simone De Beauvoir, cercano ancora uno spazio per compiersi e non in antagonismo con gli uomini, ma per loro stesse. Sarà per questo che le artiste in quanto menti attive della mostra “ Galleggio Onda di Fiati “ hanno un unico modo di intendere la spiritualità : quello della creatività, l’unica fonte ed energia vitale per le quali è necessario incanalare tutti i propri sforzi per raggiungere una dimensione superiore. Per ciascuna di loro il cammino spirituale presenta una dimensione soggettiva e individuale, ma sempre l’identificazione con un genere di ascesi per raggiungere uno stato di consapevolezza più evoluta, la saggezza, la coscienza delle vere e proprie forme di pensiero e anche di amore.

Spaziando da installazioni ambientate nelle nicchie dell’ex-Chiesa, dalla pittura informale all’assemblage calcografico, dalla video-arte alla poesia visiva, i lavori creano connessioni tra esperienze differenti con l’intento di costruire dei linguaggi comunicanti. La maggior parte delle artiste parlano di un’arte autobiografica : l’opera faticosa di ricostruzione di se stessa che trova origine nella loro infanzia, nella loro adolescenza, nell’evoluzione movimentata delle loro vite.

Si parla della fragilità del vivere e della difficoltà di amare ed essere amati. Tutte le materie utilizzate per la realizzazione dei lavori sono impregnate di poesia e di sentimenti, e racchiudono in sé l’arte di alchimia interiore.

Il ruolo dell’immagine è fondamentale per la comprensione del messaggio della mostra : una soglia del mistero dell’universo che si rispecchia necessariamente anche in un allestimento scenografico in sintonia con il sito storico che accoglie la mostra, l’ex-Chiesa di San Francesco al cuore antico di Napoli, nello splendore barocco dei sontuosi stucchi bianchi. La distribuzione delle opere viene imposta dalle tre nicchie laterali a destra e a sinistra della navata centrale le quali fungono da palcoscenico, già offrendo un racconto epico nelle loro muraglia.

Il disegno intero della mostra è nata da una scala, da una vecchia scala di legno, appoggiata ad un albero nel giardino di una poetessa. La scala indica simbolicamente una via di comunicazione a doppio senso fra diversi livelli, simbolo degli scambi e del continuo andirivieni tra cielo e terra. Un giorno in tarda primavera, la scala è stata storicizzata in una fotografia dal titolo “ L’albero e la scala” , e con questo Malgosia Mitka, ragazza timida di origine polacca che ama la natura, le montagne coperte di neve e gli animali, crea in uno scatto, inconsapevolmente, il leitmotiv della mostra. Si tratta indubbiamente di un “ déja vu”   in altre occasioni, ma la sua originalità sta nella simbiosi tra la scala e l’albero. La giovane appassionata d’arte fotografica e illustratrice di favole, trasforma il tronco dell’albero in un corpo ramato che si rivolta con forza contro gli otto gradini saturniani ed impervi, si dissolve sotto il tetto tessuto da un intreccio luminoso di foglie : pura vita, gloriosa rinascita dopo l’inverno, insinuata da una scalata prospettica vertiginosa verso il cielo che bisogna cercare dentro di noi.

C’è una presenza in particolare il cui carisma ha generato tali scenari, il cui carisma ha fatto nascere legate fantasie su tela e su carta:  Marisa Tumicelli, poetessa di Verona, amante delle scale nascoste nel giardino, donna forte, donna fragile nel suo insieme, l’io narrante di un poema metafisico sulle incertezze interiori delle donne contemporanee : varie vite, varie storie si intrecciano attorno a lei e si intersecano emblematiche e parallele attorno ad un fiume di parole, dipinte su tessuto con segni dorati, una cartografia impreziosita dal suo vissuto, una ragnatela creata da pensieri, dubbi e quesiti esistenziali che galleggiano verso l’ignoto. E’ sempre lei che ha incoraggiato il percorso di questi destini incrociati, che ha spinto le amiche artiste verso l’azione pur in stato incompiuto, un movimento in sospeso che cela il desiderio perenne di vivere delle armonie perora non raggiungibili. La sua installazione di poesia visiva che ha conferito anche il titolo alla mostra, “ Galleggio Onda di Fiati “, incorpora la sacralità di certe memorie che vanno oltre il significato materiale. Su quattro tele bianche, montate a croce sull’asse centrale della navata, oscillano le parole della sua poesia che testimoniano il suo “ credo” : canto di Dio, urlo d’amore. Marisa Tumicelli è nata per credere : l’essenza di Dio è anche la sua.

Il concetto della scala fa anche parte del percorso di Geraldine Vettore, francese di origine che insegna arti visive in una scuola di Villafranca di Verona. Con la sua innata creatività dà vita a oggetti artistici di variegata forma, utilizzando tessuti, oggetti di recupero, vetri inseriti con passione e spiccata originalità. La scala l’intriga, la scala l’inquieta come esercizio spirituale.

Da questa inquietudine che indaga, che aspira, da questa ricerca incessante crescono nuovi lavori, nasce in particolare un’opera a sorpresa, quella di una veste sacra, realizzata di stoffe preziose, di pizzo antico, di damasco dorato e rosso pallido, una veste che viene allestita sui gradini verso l’immaginario di un sacro altare,  che ormai è svanito nel vuoto dell’Apside. Reliquia di un tempo, come la definisce Marisa Tumicelli, odorosa d’incensi, testimone preziosa dell’alfabeto di Dio. Però  il lessico dell’arte di Geraldine Vettore, improntato al recupero di una gestualità reiterata e di tecniche tratte da tradizioni, è soprattutto una disciplina spirituale e meditativa , veicolo per il pensiero e la conoscenza di sé.  La sua è un’arte della ri-creazione, utilizzando degli oggetti che hanno già avuto una loro vita e che stanno aspettando la possibilità di una vita nuova.

I lavori di Silvia Bibbo invece, artista argentina che vive e lavora tra Mar del Plata e l’isola d’Ischia, sono il frutto delle ardue conquiste quotidiane per consacrarsi alla creazione artistica. I suoi disegni su carta impreziosita da macchie di color rosa di varie intensità, narrano la storia di tutte le donne, madri, figlie, moglie, amanti e le loro esperienze di vita nel ciclo naturale tra la nascita e la morte. La ricorrenza del colore rosa connota questa narrazione come un codice empirico di un continuo ed equilibrato scambio tra il dare e il ricevere amore, per cui l’artista stessa nomina i suoi disegni Vivencias , biografie femminili di menti creatrici la cui produzione nasce dall’amore. L’amore per la vita, l’amore dell’incontro con la creazione, l’amore per il tragitto della vita in tutte le sue fasi, dal piacere alla profonda gioia, dalle sostituzioni celate alle compresenze dolorose, dall’annullamento di se stessa agli abbandoni plateali, vissuti con una dinamica così simile al suo processo creativo. La sua è un’arte che è specchio fedele della sua realtà quotidiana. Le protagoniste disegnate di Silvia Bibbo con matita a colore, grafite ed acquerello, sono riflessi soffiati dai ritmi alternanti della vita, delle silhouette danzanti, fantasmagorie e trame abbozzate che celano mondi di vissuta verità. Donna compagna, donna ispiratrice, donna rivale, donna intellettuale., musa del pensiero. La loro collocazione nella mostra diventa significativa sulle alte tende rosse a semicerchio, fondo ideale per dare risalto a questo suo “ ballo di vita umana al suono del tempo “.

Ed è Laura Stor a sintetizzare il tema della mostra in un insieme di calcografie su carta pregiata, facendo della sua biografia personale un linguaggio comune. L’ artista triestina che vive e lavora da decenni a Roma, sceglie quattro verbi che caratterizzano le sue tappe di ricerca lungo la vita :  dubitare, cercare, credere, amare.  Quattro verbi, come dice Laura Stor, che rendono visibile il disegno del suo percorso di donna inquieta in quanto “trapiantata” da atmosfere native molto amate ad altri affascinanti ambienti che l’ hanno conquistato. La sua opera programmatica che non potrebbe chiamarsi diversamente se non “ Percorso “, è composta da quattro scale ideali, costituite da fogli di cartone che si collegano con dei lacci, come tessere di un mosaico verticale con segni ascendenti. Sulla carta compaiono tinte di un giallo acceso, di un blu acqueo, di un grigio d’argento, di un  marrone dorato, dei segni e dei simboli incisi che secondo il pensiero dell’artista esprimono la tensione verso la spiritualità e l’amore. Un alfabeto ornamentale a prima vista, intrinseco di memoria allo secondo sguardo, una scrittura senza tempo. Solo al terzo sguardo magari le quattro parole fanno anche cenno alla rivelazione del verbo incarnato. Questi indici di Laura Stor, le scale visibili e altrettanto invisibili, appartengono all’immaginario collettivo di tutte le artiste del progetto, soltanto in declinazioni individuali.

L’esperienza del dubbio, nel suo significato generale di stato di incertezza, di indecisione, in cui viene a trovarsi l’uomo per la difficoltà di giungere ad un’affermazione conclusiva, sembra essere costitutiva dell’opera informale di Marilena Faraci Stangier.

Non a caso i suoi paesaggi interiori con gli stigmi della cerca e del dubbio, isole dell’anima che talvolta si riuniscono con la terra ferma, fanno da cornice alle scale di vita di Laura Stor. Psicoterapeuta e pittrice di origine italiana che oggi vive a lavora a Francoforte, Marilena Faraci traccia nei suoi dipinti le fasi graduali della maturazione : la prima relativa alla crescita interiore e la seconda relativa alla manifestazione di questo risultato nell’esperienza quotidiana del mondo. La sua pittura è la messa a nudo dei propri smarrimenti, delle proprie rotture, delle proprie separazioni, spostandole indefinitamente, all’infinito, per farne un senso. Ritaglio e ricucitura, processi di una geologia subconscia, fanno nascere dalla nostra immaginazione dei nuovi continenti, prudentemente contornati, sulle rive di un’ulteriore consapevolezza. Ed è proprio questo percorso simbolico di passaggio, di scambio, di congiunzione di opposti nelle sue ricuciture che con il passare degli anni siamo chiamati ad attualizzare al fine di vivere in noi una vera e propria trasformazione alchemica.

Il Credo incondizionato di Marisa Tumicelli si fa colore nei due dipinti di Leda Martari, artista di Villafranca di Verona, affinità elettiva della poetessa nella vita e nell’arte. Più che mai i suoi lavori s’irradiano nella ricerca dell’assoluto che passo dopo passo sulla nostra scala ideale non sembra darle fatica, anzi, raggiunge una “ luminosità con incerte aperture tra cielo e terra “, con le parole di Marisa Tumicelli, invoca la  “ Gloria della creazione.” In effetti, Leda Martari si è ispirata a lungo alla storia della Genesi, fonte di creazione più straordinaria dell’arte di tutti i tempi. A questo proposito ricordiamo delle rappresentazioni figurative celebri, fino a quando, nel corso del Novecento, il dialogo tra l’arte e la fede s’interrompe, lasciando spazio alla concezione di  una nuova spiritualità. Anche Il secondo quadro di Leda Martari, “ Genesi “, parla attraverso il prisma del colore, rifiuta concetti formali e si dissolve gradualmente verso l’astrazione. Il suo esistenziale bisogno di credere, come donna e come artista, si risolve sulla tela con un intenso bagliore,  con un accecante raggio di luce inteso come illimitatezza della potenza creatrice di Dio, che ne rappresenta la pienezza e la perfezione.

Antonia Trevisan, artista vicentina che vive e lavora fra Vicenza e Venezia, completa la mostra con una sua visione sacrale dell’infinito. Utilizzando la tecnica di trasposizione a getto d’inchiostro su polipropilene, l’artista ne rende ancora più intensa l’idea dell’etereo, del serafico nella sua opera. Dotata di un grande introspezione che implica il dono di guardare oltre, Antonia Trevisan ha raggiunto un equilibrio meditativo anche nella sua arte. Le sue riflessioni maturano nell’icona dell’angelo di Walter Benjamin che appare tra le sfumature gareggianti dell’azzurro, l’angelo con la sua capacità salvifica che ci aspetta in silenzio alla fine della nostra discesa nell’inconscio, alla fine del nostro viaggio dentro noi stessi. Il titolo dell’opera è “ Infinito Sguardo “ che insinua all’angelo della Storia mentre fissa lo sguardo su qualcosa. Ma non è più lo sguardo rivolto al passato, è lo sguardo rinnovato alla fine della tempesta  che lo spinge irresistibilmente nel futuro. L’angelo sa  che solo attraverso la distruzione violenta dell’ordine, ormai diventato inumano, si può aprire lo spazio per la redenzione e la felicità.

In una delle sue poesie, Juan Ramon Jimenez parla del destino come albero invisibile e infinito che dà il suo frutto, e che l’anima a volte raccoglie, maturo… Cosi le otto artiste hanno interpretato, in modo differente, la ramificazione dell’albero attraverso le loro idee, hanno alimentato le sue radici, coltivato dei sentimenti, tessuto dei sorrisi, accompagnati dal profumo inebriante dei gigli che in questa stagione abitano dentro le dimore sacre.

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